pezzo della settimana: Empress of/Kitty Kat

Trasloco

Posted: Febbraio 14th, 2016 | Author: | Filed under: clueless | Commenti disabilitati su Trasloco

Questo blog, che ho coltivato senza costanza per molti anni è giunto al capolinea.

Ho bisogno di uno spazio diverso e per ora lascio questo blog online, perché  non posso importare tutti gli articoli altrove, e mi spiacerebbe tanto perderli.

se volete leggere qualcosa di aggiornato basta che clicchiate qui.

thanks noblogs.

https://onewomansho.wordpress.com/


gone home ovvero riot grrrls in un videogame

Posted: Luglio 21st, 2015 | Author: | Filed under: cool stuff | Tags: , , , , , , | Commenti disabilitati su gone home ovvero riot grrrls in un videogame
Gone Home

“Gone Home” di The Fullbright Company

 

Grazie all’intervento soprannaturale della regina zabo, mi  è arrivato un po’ di tempo fa questo bellissimo videogioco o video storia, o narrazione interattiva, che da il titolo a questo post “Gone Home“.

L’ho riaperto e finito ieri sera, ragion per cui eccomi a condividere e invogliarvi a cercarlo e giocarci.

Prima di tutto sappiate che non dovete essere delle esperte di video giochi per farlo: la storia e l’interazione è pensata per persone che non hanno alcuna esperienza e anzi potrebbe essere il modo migliore per avvicinarvi a questo mondo affascinante e pieno di attrattive.

[giuro sulla pizza margherita: no spoilers]

Il gioco vi fa entrare (con modalità di interazione in prima persona) nella vita di Kaitlin, appena rientrata da un lungo viaggio in Europa alla casa di famiglia a Portland (la Fullbright, che lo ha creato, ha sede lì, come tutte le cose fighe al momento!), casa che ritrova vuota di tutti i suoi familiari e che vi ritroverete ad esplorare attraverso di lei, raccogliendo tutte le informazioni necessarie per capire cosa è accaduto e chiudere appunto la storia.

Ed è questa la parte bella: l’esplorazione, durante la quale troverete tantissimi riferimenti alla cultura delle riot grrrls, e del punk rock, visto che siamo a Portland, nel 1995, disseminati in ogni angolo della casa.

Ci sono zines, cassette (che potete ascoltare mettendole su voi stesse) riviste musicali di quel periodo che potete trovare nel vostro girovagare e guardare da vicino. Tutte realmente uscite in quegli anni.

Non potete immaginare la commozione che ho provato quando ho ritrovato la cassetta delle Heavens to Betsy, che io avevo davvero negli anni ’90, e ho messo su Terrorist. Lacrime.

E poi c’è la storia che andrete a ricostruire e che ha come principale protagonista vostra sorella Sam, ma su questa non posso dirvi nulla, giurai sulla pizza margherita, e vi tocca scoprirla da sole.

In rete trovate moltissime informazioni sul gioco, vincitore di numerosi premi, soprattutto quelli dedicati a i giochi indipendenti, e la casa che lo ha creato e prodotto, ma le cose che mi interessa raccontarvi, se non le sapete già, hanno poco a che fare con la società Fullbright, creata da tre menti brillanti e dotate che hanno deciso di prendere casa insieme e farne anche il loro ufficio, anche se mi piace citare una dei tre soci della Fullbright, ossia Karla Zimonja.

Karla è una delle cattive ragazze della scena delle programmatrici e scrittrici di storie per giochi, che tanto fa arrabbiare i puristi, misogini prevalentemente, del settore (che quanto a fondamentalismo e sessismo, ve lo assicuro, non hanno niente da invidiare a nessuno) e che a suo modo sta cercando di cambiare il concetto di videogioco e soprattutto di cambiare i ruoli di genere che tanto affliggono il mondo delle appassionate, come me (sigh) cresciuta tentando di finire Monkey Island a casa del mio fidanzato (unico e solo fidanzato della storia) di allora.

Che io il pc non ce lo avevo ancora.

Karla, come potete capire bene in questa intervista, ha cercato, insieme ai coofondatori Steve Gaynor e Johnnemann Nordhagen, di creare un gioco diverso per molteplici ragioni:

– dare un ruolo diverso ai personaggi femminili delle storie dei giochi

– creare un gioco che fosse fruibile da tutt*, anche chi, come accennavo prima, non ha molta esperienza o non ha mai giocato prima (non lo dico perché l’ho letto da qualche parte, ma perché ho costretto la mia compagna, che non ha mai giocato nemmeno agli arcade degli anni ’80 a provarci, ed è stata “una bella esperienza”, dice lei)

– parlare di temi di cui di solito non si parla nei giochi, come l’omosessualità, i problemi adolescenziali, l’accettazione di sé

– ambientare il gioco in quello che forse è stato uno degli ultimi anni in cui la tecnologia non aveva ancora preso il sopravvento nelle nostre vite, e i riferimenti analogici sono ancora credibili e godibili.

– il gioco, non ha come utente target il giocatore bianco, maschio adolescente (o adolescenziale), come normalmente vengono concepiti la quasi totalità di essi, ma una giovane donna, e due teenager, di cui una originaria del Messico.

Il gioco è stato molto ben accolto dalla critica, ma anche redarguito perché secondo alcuni non si può considerare un vero e proprio videogioco: non ci sono puzzles, ostacoli, combattimenti, mostri.

E allora che facciamo?

Impariamo ad esplorare e ad “ascoltare” una storia, a interagire con gli elementi di un gioco, e ad empatizzare con i personaggi che fanno parte della storia, tutte cose che sono una novità nei videogiochi, dove invece tutto è costruito per sfidare le abilità, in genere manuali, della giocatrice, ma niente della storia è veramente interessante o significativo a livello personale.

Sicuramente non è una gioco tradizionale, ma, e ve lo dico da appassionata di sparatutto (wolfenstein, doom, quake) e adventures (il già citato monkey, broken sword) vi piacerà proprio perché è un’esperienza davvero originale.

E potete finirlo in un paio di ore, quindi una di queste sere, anziché spararvi la vostra serie del momento, se avete 19 dollari da spendere, scaricatelo qui.

Nel pacchetto sono compresi anche 4 album nel formato digitale che preferite, ossia Bratmobile/Pottymouth + Heavens to Betsy/Calculated + la colonna sonora originale composta + The Youngins/The Youngins are hardcore, una band punk rock di Portland, la cui musica è diventata, nel gioco, quella della band inventata delle Girlscout.

A proposito di videogames e del modo in cui le donne vengono presentate, percepite e usate nelle storie, vi consiglio caldamente il lavoro fatto da Anita Sarkeesian nel suo videocast feminist frequency, in particolare il video dedicato alle “damigelle in pericolo”, che potete guardare qui.

Intanto un assaggino musicale non si nega a nessun*

testo (e se non è potente questo, non saprei):

you follow me on the fucking street
you make me feel like a piece of meat
you think i don’t know what war means
now i’m the terrorist see how it feels

i’m going to kill you
i’ll cut you up gouge out your eyes
i’m going to kill you
i’m not your prey i’ll make you die

on my mouth there is a gag
everything i say is wrong
you laugh at me and knock me down
now your turn is coming around

i’m going to kill you
i’ll cut you up gouge out your eyes
i’m going to kill you
i’m not your prey i’ll make you die

i’m not kidding
and i’ve had it just about to here
and i’m not kidding
i threaten everything you hold dear

you follow me on the fucking street
you make me feel like a piece of meat
you think i don’t know what war means
now i’m the terrorist see how it feels

i’m going to kill you
i’ll cut you up gouge out your eyes
i’m going to kill you
i’m not your prey i’ll make you die


you’ve just lost one (ossia me)

Posted: Luglio 17th, 2015 | Author: | Filed under: live review | Tags: , , , , , | Commenti disabilitati su you’ve just lost one (ossia me)

Oh no,

non so proprio da dove cominciare per raccontare il live di Ms. Hill ieri a Roma, in quel dell’auditorium.

Ci rimugino da ieri sera, ma non riesco a trovare una parola migliore per dire in modo più carino, o forse meno definitivo che è stato proprio un brutto concerto.

E non voglio proprio parlare del fatto che in parterre la gente si sia alzata per andare sotto al palco, cosa che mi fa in generale pure più piacere dello stare seduta, ma magari non a 80 euro al biglietto, e soprattutto non quando ci sono almeno 30 persone sulla sedia a rotelle (tra cui un’amica) che a causa di questo non hanno visto praticamente nulla dello show. Questo non c’entra con la mia opinione sul concerto.

E nemmeno desidero affrontare la questione del ritardo cronico che affligge la Ms. in questione, già è stata aspramente rimproverata per questo un po’ dovunque (che ci sono luoghi che chiudono ad una certa ora, persone che prendono treni, lavoratori cui non vengono pagate le ore di straordinario).

Voglio proprio parlare della performance. Dello spettacolo, della musica e dell’artista.

Però forse è necessaria una premessa.

Ogni volta che si va a vedere un grande evento, come questo (le rare esibizioni della Hill, sempre che non siano cancellate all’ultimo secondo, l’incertezza di trovarla bene fisicamente e con un buon mood), è sempre un po’ rischioso. C’è da una parte il proprio legame personale con l’artista e la sua musica, quello che ha rappresentato per noi, nelle nostre vite, i ricordi a cui è legata e insomma tutta quella miriade irrazionale di cose che ci fanno amare qualcun* in modo speciale. Questo ovviamente si riflette su come andiamo al concerto: abbiamo il desiderio che l’artista suoni quei pezzi piuttosto che altri, che faccia delle cose piuttosto che altre. Insomma è tosto riuscire a soddisfare i desideri, tutti diversi e personali, di chi va ad un concerto e le aspettative sono sempre alte in questi casi.

Ma personalmente, dopo anni e anni di live di tutti i generi, nei luoghi più oscuri e improbabili e in quelli più adatti e accoglienti, ho imparato a sospendere il pregiudizio e a non aspettarmi nulla. A sperare sì, ma a restare aperta ad essere sorpresa e catturata da quello che è il senso stesso del live.

Bene, detto questo sono andata a questo “evento” felice di vedere finalmente Ms. Hill, anche per le seguenti ragioni:

a) dai recenti video messi online da lei stessa mi sembrava in forma fisica.

E lo è, ha perso peso il che le permette fisicamente di reggere uno show, di ballare, saltare e insomma stare sul palco sul serio (per la musica che fa).

b) Avesse recuperato la voce, abbastanza almeno per reggere un concerto.

Ed è vero. Sia chiaro la sua splendida voce è irrimediabilmente rovinata, e questo è un fatto innegabile, più roca e bassa ed incapace di prendere alcune note che erano sue, ma questo lo sapevamo, è lei che deve farci i conti e lavorare su ciò che ha a disposizione adesso.

c) Perché volevo vedere live un’artista capace di comunicare profondamente col suo pubblico.

E qui cominciano le note dolenti. Non ne è stata assolutamente capace. Priva di qualsiasi reale connessione, anche visiva, col pubblico (se non per la fine dello spettacolo). Tutta presa, in modo quasi ossessivo e di certo, per chi la guardava irritante, dalla pretesa di dirigere nota per nota, assolo per assolo, crescendo per crescendo, quello che faceva la band.

Irritante perché non solo era brutto da vedere, il suo nervoso e isterico rivolgersi ora al batterista per dire “su su”, ora al chitarrista per dire “abbassa” ora al piano per dire “zitto” ora alle coriste per dire “ancora un giro” “entrate adesso”, ma era anche inutile, irrimediabilmente inutile.

Sopratutto sono certa che la band abbia provato il concerto più e più volte, come è normale per de* professionist*

E, lasciatemelo dire, controproducente perché immaginateli mentre cercano di obbedire alle direttive di Ms. Hill che canta di profilo e pretende che ad un suo cenno improvviso tutto si plachi perché ha deciso che vuole fare un giro solo di voce e chitarra (non la sua, ha praticamente fatto finta di suonare un po’ di pezzi e poi ha smesso).

Era talmente presa da questa assurda direzione orchestrale che ha interrotto un paio di volte dei brani (nessuna recensione ne parla mi pare) dicendo alla band: no no abbassa, e mentre stava cantando una strofa, più di una volta, ha smesso e si è girata verso la band per dirgli “cristosololosa” cosa.

Che diavolo di concerto è?

Ma santissima Ms. Hill: tutti gl* artist* professionist* provano lo show prima di andare in tour, studiano il sound, le novità, assemblano gli arrangiamenti, verificano i musicisti, li istruiscono, lavorano alle coreografie, alle scalette (più di una a seconda della location, dei tempi, del palco) ecc.

volete una prova? minuto 1.31

E veniamo al suono e agli arrangiamenti: una sola parola “caciara”.

Lo so che non mi credete, che state pensando: la solita spaccaovaie quella donasonica. Beh fate un giro su web, ci sono piccoli spezzoni o interi video e fate questo gioco: prendete un video di ieri e se non siete espert* aprite un video della stessa canzone (sempre che siate in grado, non per vostra ignoranza ma per oggettiva difficoltà, di riconoscerla) e paragonate la “velocità”, il tempo diremmo meglio, della canzone.

Come cazzo si fa a fare tutti i pezzi di un concerto ad un tempo maggiore. Dio santo, capisco, anche se no perdonerò mai Ms. Hill per avere riarrangiato in versione “reggae” un pezzo straordinario come “ex-factor”, ma un’altra cosa è fare sistematicamente tutti i pezzi ad una velocità maggiore. E’ qualitativamente e oggettivamente brutto.

Lo so che non mi credete allora sentite qui:

e questo non era nemmeno il peggiore.

Disastroso il suono, e la colpa non è certo dell’auditorium, perché se una che si sbatte come una matta “durante” il concerto per controllare ogni singola espressione della sua band non ha un* fonic* perfett* che sa esattamente cosa vuole, è una dilettante. La potenza per la caciara c’era, quindi.

Non c’era uno stacco, un cambio di registro e di atmosfera, tra la parte più intima e quella più “arzateve e abballate tutt*” , se tralasciamo il fatto che nella prima era seduta e nella seconda era in piedi.

Beh insomma ora mi sono arrabbiata di nuovo, perché io l’amo davvero Ms. Hill, Lauryn Hill o come cavolo vuole farsi chiamare.

Perché ha scritto delle cose belle. E ci ha messo la faccia.

Però ieri ho capito che quello che un po’ temevo da tempo, forse è vero.

Ms. Hill predica bene, ma razzola malino:

1) parla e critica sempre lo showbiz, il mainstream ecc. e poi si comporta da diva, prima e dopo lo show. In più, si può essere indipendenti pure stando con una major solo se ti chiami “Sonic Youth” secondo me (ovviamente trattasi di un’iperbole). non rispetta il pubblico, non mi pare che sia lì per loro, ma per se stessa.

2) ha paura di quello che è ora, ossia una cantante e un’artista diversa da quello che era 20 anni fa: invece di mettersi a riarrangiare i pezzi, scriverne di nuovi forse è una soluzione.

3) poco, pochissimo hip hop e molto davvero troppo reggae (tralasciando le 3, dico 3 cover di bob marley, che forse sono state, musicalmente parlando, il momento migliore dello show).

ed ecco, a mio modestissimo parere alcune possibili soluzioni:

1)  Ms. Hill può essere indipendente se vuole, soprattutto dopo essersela menata per anni, e soprattutto visto che è in grado di fare sold out nel 2015 senza un disco nuovo da più di dieci anni. basta scegliere i luoghi giusti dove andare a suonare, vivere l’atmosfera dei concerti e delle persone che conosci e che incroci dietro e sopra il palco con più umanità e meno divismo.

2) Ms. Hill deve comporre cose nuove, circondarsi di gente che sa suonare, non gente che adora Ms. Hill, ma che adora la musica e vive per la musica.

3) Ms. Hill deve lasciare andare Lauryn Hill e Fugees, e capire chi è ora e cosa vuole suonare.

E se ascoltando un nuovo pezzo di Lauryn Hill scoprissi che non mi piace?

Beh allora le direi: ok, non mi piace la direzione che hai preso, ma sono felice che tu stia facendo quello che sai fare, esprimerti in musica, e non cercare di imitare la donna che non sei più, lamentandoti di non voler essere l’artista che volevano gli altri.

love.

p.s. se volete leggere un altro parere, non molto dissimile al mio, ma scritto molto meglio, e corredato di belle foto:

emanuele mancini


5 album da scaricare (quasi) gratis

Posted: Luglio 13th, 2015 | Author: | Filed under: cool stuff | Commenti disabilitati su 5 album da scaricare (quasi) gratis

per cominciare questa calda settimana con qualcosa di nuovo da ascoltare sui vostri innumerevoli dispositivi, vi suggerisco di cliccare qualcuno di queste mie scelte, verificare quale fa per voi, e scaricare gratuitamente o lasciando quanto pensate sia giusto.

– se vi sentite morbidi e languide, Tashaki Miyaki, duo (prima trio) di base a Los Angeles, potrebbe fare proprio al caso vostro.

Il loro album “Undercover II“, che come rivela il titolo è una raccolta di cover girate al loro dreamy mood, scaricabile con la formula “name your price”, potete anche prima ascoltarlo in streaming.

– Se invece, nonostante il caldo, vi sentite piene di energie e pronta a scatenarvi allora Peach Kelli Pop, che in realtà è il progetto di  Allie Hanlon, è quello che fa per voi.

L’album, che si chiama semplicemente Peach Lelli Pop III, è scaricabile a soli 10$. Ecco un assaggio:

– se invece siete un po’ più inclini al rock melodico, date una chance ad Hannah Lou Clark, e il suo Ep “Silent Type”, disponibile su Gravy Records a poche sterline.

– per le più raffinate, cui piace del delicato folk magari con un tocco europeo, nello specifico francese, ecco qui Pauline Drand. il Double EP scaricabile a soli 7 euro.

– e finisco con un album di una band nostrana Ou, il cui album Scrambled è uscito da poco più di un mese, e di cui presto scriverò qualcosa in più, ma che intanto nel torrido luglio che ancora ci aspetta vi suggerisco caldamente di acquistare subito, a soli 7$.


di ritorni, narrazioni, amore e rodimenti di ovaie

Posted: Luglio 9th, 2015 | Author: | Filed under: live review | Tags: , , | Commenti disabilitati su di ritorni, narrazioni, amore e rodimenti di ovaie
08/07/15 roma, villa ada. foto di @pin_klo

08/07/15 roma, villa ada. foto di @pin_klo

Ieri ero al concerto di St. Vincent. E pure un sacco di voialtri in quel di Roma. Dovrei o vorrei commentare il concerto, ma potete trovarne centinaia di questi racconti e video in giro per la rete: ed ecco la setlist, e quanti plettri ha usato, e chi erano i musicisti, e quante volte e andata su e giù dalla piattaforma, a che minuto ha steccato, quando si è buttata sul pubblico (dicendo stage diving perché è molto più cool), che c’era scritto sullo striscione che ha tirato con se dopo il diving sul palco, quanta gente c’era, la qualità tecnica della performance, l’affiatamento dei musicisti, le coreografie, il look, le chitarre che ha suonato, chiudere con un leggero accenno alla sua vita privata o semplicemente mettere su 5 o 6 foto carine con un trafiletto da quattro soldi.

Dovrei e mi piacerebbe, sul serio. Vi dirò questo, invece.

Lei è meravigliosa, magnetica e assolutamente impeccabile. Rispetto ad un po’ di esibizioni fa, mi pare abbia ancora più voglia di improvvisare sul palco, alcuni brani, ad esempio, sono arrangiati diversamente, specie negli assoli. Non sempre funziona, secondo me.

Ma mi piace vedere un’artista che ti mostra di essere in evoluzione, non solo sul colore dei capelli. Poi da femminista, da donna, guardare lei sul palco che svisa su quella chitarra con sicurezza, con trasporto e con la sensualità dell’intimità che c’è tra lei e le sue chitarre, non può che farmi eccitare. Percepisco una grande timidezza e distanza dal pubblico, ma un altrettanto enorme desiderio di colmare quella distanza. Annie ha surfato sul pubblico, alla fine, come l’altra volta. Dopo averlo studiato a lungo, come l’altra volta. L’altro volta io ero sotto, e lei si è adagiata su di noi, l’ala lesbica/femmina del pubblico d’avanti (le lesbiche, si sa, si ritrovano sempre tutte nello stesso posto, per una sorta di attrazione magnetica che prima o poi dovremmo studiare meglio).

L’audio come al solito, lascia a desiderare. Ok, a Roma i concerti non sono costosi come in altri posti della terra, ma l’audio fa cagare il 90% delle volte e si può fare meglio, se si vuole.

E poi noi. Dall’altra parte. Il pubblico grosso.

Dovremmo scrivere sui manifesti: attenzione prima di comprare il biglietto meditare sul fatto che trattasi di un ‘concerto per pubblico grosso’.

Definizione della definizione ‘concerto per pubblico grosso’

– quando si tratta di concerti:

a) all’aperto o in un posto molto grande, d’inverno, nel week end

b) di un’artista che, suo malgrado, è diventato minimamente not*, ovviamente non grazie alla musica

c) l’evento nel quale il concerto è ospitato, per ragioni a noi il più delle volte sconosciute, è diventato “l’evento”, il luogo dove devi essere stat*, con almeno una foto a testimoniarlo sul tuo status pubblico.

disclaimer: Questo post, che non è una recensione di un live, ma un racconto live, non è corredato da alcuna foto* a testimoniare la mia reale presenza al concerto. Sì ho il biglietto, e molte persone erano insieme a me e possono confermalo.

Ma potrebbe anche essere una montatura. Il mio status non corrobora questa affermazione. Lo so.

La verità è che non ho avuto il coraggio di tirare fuori la mini camera che mi accompagna ai live, per acchiappare in qualche foto (ne scatto poche perché mi distrae troppo dalla performance) solo un paio di immagini, perché so che i ricordi poi sbiadiranno velocemente.

Perché mentre l’artista in questione cantava “Digital witness” e ci imponeva di andare ai nostri posti, ci chiedeva che senso ha dormire, se nessun può vedermi, e in breve come abbiamo venduto le nostre identità e personalità e che senso ha fare qualunque cosa in questo momento (guardami mentre mi butto giù da un ponte), beh davanti a lei c’erano centinaia di smartphone che sparavano mitragliate di status in cui qualcun* poteva dire che c’era, e quindi esisteva, perché era “un testimone digitale”.

Io, la macchina, non l’ho tirata fuori. E l’ho amata anche di più, nella solitudine dell’essere inascoltata.

Lei non è Kate Tempest, che nella stessa situazione è scesa tra il pubblico a ballare gridando “vi voglio qui ora, siamo qui ora tu e io (in faccia ad uno che le puntava il cellulare), non c’è bisogno di mettere niente tra me e te”, Annie/Erin/St. Vincent è un’artista diversa.

Eppure, per quanto la mia indole sia più simile a quella di Kate, Annie ha detto le stesse cose, in una forma diversa e con un linguaggio differente, ma similmente toccante e commovente: ché la musica altro non è che percepire con tutta me stessa i sentimenti e le sensazioni che qualcun* altr* prova o ha provato, per non sentirmi più sola, finita e mortale nell’universo.

queste alcune storie di ieri:

– versione negativa ovvero lettera ad una ragazza, vestita e truccata bene, che avrei voluto simbolicamente picchiare (per vendicare anni di soprusi, lo confesso)

Tu, ragazza vestita e truccata bene, che ieri eri al concerto di St. Vincent (ovviamente per caso).

Tu che quando St. Vincent stava cominciando un nuovo pezzo (hai finalmente incontrato la tua amichetta che da tanto tempo non vedevi. Tu che hai quindi reagito come fossi al bar urlando, stramazzando e cominciando con la storia (versione lunga) degli ultimi tre anni della tua vita, urlando sempre più forte perché St. Vincent era a metà canzone, e ci stava dando dentro. Tu, ragazza vestita e truccata bene, che al mio (e non solo mio) voltarmi a guardarti con odio, tantissimo odio, ma senza fiatare, ti sei voltata dall’altra parte e hai fatto finta di non vedere (ne me ne gli altri). Tu, ragazza vestita e truccata bene, che nonostante avessi provato una comunicazione non verbale (3 volte) e una semi verbale “shhh” (due volte) secondo me molto chiara, hai continuato ad alzare la voce perché l’amica non sentiva gli straordinari aggiornamenti delle vite degli amici comuni. Tu, che quando mi sono girata e ti ho detto “ao, stiamo sentendo il concerto”, hai risposto “MAMMA MIA!” come se ti fossi appena svegliata, e senza alcun rispetto fossi stata proprio io a svegliarti. Tu, ragazza vestita e truccata bene e ora anche indignata per essere stata così aspramente rimproverata perché al mio urlo, le pecore intorno a me, almeno questo, hanno confermato di essere pure loro lì per il concerto, non per assistere alla tua conversazione con l’amica. Tu che andando via, sempre indignata mi hai urlato “cafona”. Tu che ti sei davvero sorpresa quando ti ho presa per la maglietta, tirata indietro e chiesto, a distanza ravvicinata: “cafona, a me? tu caghi il cazzo a 30 persone che stanno ascoltando un concerto, gridi come una ossessa e io sono cafona” e tu che ormai è evidente che non hai capito, ribadisci “che cazzo di modo di rivolgerti”. Tu ragazza vestita e truccata assai bene, che mi costringi a ricordarti che “non sono tua madre ne tuo padre, a loro toccava insegnarti a rispettare chi ti sta intorno, e che se non sparisci da qui in silenzio, subito, tocca pure che ti prendo a calci in culo”. Tu ragazza vestita e truccata assai bene, che alla fine hai capito che non stavi conversando nelle orecchie dell’ennesima ragazza vestita assai male e niente affatto truccata, ma di una che con rispetto per ben 3+2 volte ha fatto leva sui due neuroni rimasti in quella inutile testolina, senza successo.

Tu, ragazza vestiva e truccata bene, spera pure di non incontrarmi mai più.

– versione positiva ovvero lettera ad un ragazzo che spero di incontrare ancora

E tu, ragazzo di vent’anni con l’accento del nord e molto queer. Tu che sul bus che ci portava a villa ada eri fuori di te dall’ansia di arrivare in ritardo. Tu che saltavi come un bambino che sta per arrivare alle giostre. Che mi hai chiesto cento volte se eravamo vicini. Che quando siamo scesi mi hai chiesto la direzione giusta come stessi andando alla mecca. Tu, ragazzo sensibile e dolce, senza paura che ti giudicassi matto, hai cominciato a raccontarmi di quanto fosse stato bello vederla l’anno prima a Barcellona, di come ti avessero sorpreso il suo stile, la sua forza sul palco e la sua eleganza. Tu, che quasi ti commuovevi a pensare che stavi per rivederla. Tu che hai cominciato a correre, e a cui io ho urlato “devi girare qui!” ma non hai sentito e hai continuato a correre verso ponte salario. Tu, ragazzo dalle spalle piegate in avanti e il sorriso tenero, che pensavo non avessi più raggiunto villa ada, e ti fossi perso sulla salaria, caricato per sbaglio da qualche autista in cerca di piacere. Tu, con le mani sempre pronte a giocare con i capelli, che alla fine del concerto mentre chiacchieravo con delle amiche mi hai fatto toc toc sulla spalla, per raccontarmi di come fossi stato felice che il tuo ricordo di lei si fosse rinnovato e non sbiadito. Di come ancora più bella e magica ti era apparsa, e del fatto che eri così dispiaciuto di non essere riuscito a convincere nessuno dei tuoi amici a venire, perché non eri stato abbastanza bravo a fare proseliti per un’artista così meritevole. Tu, che con un sorrisone mi hai detto prima di andare via semplicemente: Giacomo. Tu ragazzo di vent’anni e molto queer, sei le persone che vorrei incontrare ad un concerto. Sempre.

p.s. ringraziamenti a Elisa Luu, che mi ha preso il biglietto perché arriva sempre prima di me, e a pinklo per le birrette, e che mi ha concesso la foto* (molto bella).

p.s. 2 ca va sans dire che la ragazza ‘vestita e truccata assai bene’ poteva pure essere ‘il ragazzo vestito bene con le ciglia e le mani curate, che non si trucca solo perché ‘se no si’ ricchion’, alla mia destra. E che il ragazzo di vent’anni molto queer, poteva essere pure la ragazza timida, che ha fatto la strada in autobus e poi a piedi con me e lui, che non si è messa a correre, perché non sapeva la strada, e mi ha augurato buon concerto.